Un servizio nato da un bisogno condiviso da studenti e docenti, direttamente o indirettamente interessati, che hanno sentito forte l’esigenza di raccogliere e socializzare le sempre più numerose esperienze vissute all’estero, in quanto risorsa per offrire un appoggio a quanti interessati a loro volta a partire. A seguito di un vivo scambio di idee, opinioni, riflessioni su esperienze pratiche e sogni, il programma è stato implementato a partire da gennaio 2005.

mercoledì 19 giugno 2013

Un Cerchio che si chiude - Domenica 2 giugno 2013

Un incontro che non poteva mancare quello di domenica 2 giugno, negli spazi di Casa a Colori a Padova, per ritrovarci assieme con il gruppo di studenti che hanno svolto il tirocinio all'estero nel 2012 e con Gigo (Diego Cassinelli), appena arrivato dallo Zambia, con noi per presentarci il suo libro 'Sulla strada con... Vite di strada e strade di vita nei Sud del mondo' (infinito edizioni)

Un tardo pomeriggio e serata di condivisione, di racconti dal mondo, di risate, di riflessioni, di diversità e di crescita che ancora una volta confermano il valore delle esperienze formative vissute e delle attività svolte attraverso il Programma Tirocini formativi all'estero.
Un velo di tristezza ha comunque accompagnato questo incontro perché ... si chiude un cerchio!
Il programma di cui sopra dal 2005 è stato promosso e sostenuto dalla Ex Facoltà di Scienze della Formazione UNIPD e sviluppato in seno alla Comunità Educazione senza Frontiere.
Con il passaggio dalle Facoltà ai Dipartimenti (gli ultimi cambiamenti in Ateneo), però, non ha trovato continuità ed è stato sospeso.
Nonostante le diverse richieste di studenti e volontari interessati ad esperienze all'estero, infatti,  quest'anno non si svolgerà il percorso formativo e verranno interrotte anche alcune delle relazioni significative con 'partner' internazionali che nell'arco dei sette anni di programma hanno accolto volontari e studenti in diverse parti del mondo.
La Comunità Educazione senza Frontiere, invece, continua a proporsi come uno 'spazio' di dialogo, incontro, condivisione e formazione cercando anche modalità e canali diversi.


Il gruppo di studenti presenti:
Jessica Brocca e Federica Magrin (Educazione sociale e Animazione culturale) - ECUADOR
Gloria Pettenon (Educazione sociale e Animazione culturale) e Daniele Candeo (Cooperazione allo Sviluppo) - BRASILE
Greta Fattori (Cooperazione allo Sviluppo) - MESSICO
Giovanni Pedron (Cooperazione allo Sviluppo) - PARAGUAY
Simone Ciuffi (Cooperazione allo Sviluppo) - KOSOVO
Monica Gabrielli (Cooperazione allo Sviluppo) - KENYA
Michele Grolla (Cooperazione allo Sviluppo) - BRASILE
Gabriele Gomiero (Cooperazione allo Sviluppo) - CILE
Michela Martini (Scienze dell'educazione) - ARGENTINA
Michele Bianchi (Cooperazione allo Sviluppo) - KENYA
Giulia Ciaghi (Cooperazione allo Sviluppo) - MESSICO

Buon cammino ...
Nicola Andrian e Chiara Menorello

martedì 18 giugno 2013

Giulia Ciaghi - Report. Comunità indigena Lopez Hernandez, Venustiano Carranza, Chiapas, Messico.


24/8/2012

La vita della comunità inizia prima di quella del sole, quando ancora la luna si sta congedando dagli uccelli notturni che l'hanno accompagnata nel suo percorso.
Inizia con il profumo di caffè e l'odore delle braci scoppiettanti che lo riscaldano, con il canto del gallo che ogni mattina annuncia il giorno che arriva: un altro giorno di lavoro nel campo per gli uomini e in casa per le donne.
Ed è proprio sul canto del gallo che si basa l'ora locale. Perché spostare l'orologio avanti di un'ora se la loro sveglia naturale canta sempre alla stessa ora, che sia stagione secca o stagione delle piogge? Succede quindi che facendo qualche chilometro in macchina per spostarsi dalla comunità alla cittadina più vicina ci si stia muovendo oltre che nello spazio, anche nel tempo.


La concezione temporale cambia anche per il tipo di relazioni che si instaurano e per come tutto ciò che succede fluisce lentamente, seguendo i ritmi naturali che ti circondano..I bambini che giocano intorno agli alberi da frutta e gli alberi da frutta che aspettano i bambini, i tacchini che cercano del cibo intorno alla casa del proprio padrone, il contadino che semina a mano, passo dopo passo, i chicchi di mais per la raccolta che verrà, le donne che al fiume lavano i vestiti a mano e che in cucina preparano la tortilla per tutta la famiglia ...ogni azione segue un ritmo che si ripete, quasi costantemente, giorno dopo giorno.
La divisione dei compiti è definita da una forte concezione di genere: l'uomo è il sesso forte, quello che con in mano il machete può lavorare il campo tutta la mattina per coltivare il mais per la famiglia e per venderlo in modo da creare reddito; la donna è il sesso debole, e per questo deve rimanere a casa per fare i lavori casalinghi e badare ai bambini.
Una mentalità abbastanza maschilista che spesso, per molti dei suoi elementi, non si rende conto di quanto sia duro essere una donna qui, poiché il giorno di riposo non esiste. La casa non si ordina da sola, i vestiti non si lavano a mano da soli, la colazione, il pranzo e la cena non si preparano da soli. Mentre il mais, una volta piantato, cresce secondo il suo ritmo e i suoi tempi, richiedendo meno cura giornaliera che non un focolare domestico.
Pensavo che arrivare qui come giovane, bianca e donna potesse essere un motivo di diffidenza da parte delle persone del luogo.. al contrario, ho poi scoperto che non è difficile farsi accettare dalla gente, tutto il contrario: le donne non aspettano un secondo per offrirti una sedia e un pasto caldo alla loro tavola; con i bambini e le bambine basta un'ora di gioco assieme per diventare migliori amici; mentre molti uomini pensano che conoscere gente straniera e far sì che queste persone portino la voce contadina nei paesi da cui provengono sia solo un bene, perché se nessuno li ascolta in patria, forse potranno farsi ascoltare da qualche bianco dall'altra parte dell'oceano che capirà la forza della loro lotta.
Gli uomini che fanno parte della OCEZ (Organizzazione Contadina Emiliano Zapata) parlano con una carica invincibile nello sguardo e nelle parole: parlano di lotta, di sacrifici necessari, della necessità di mantenersi organizzati e addirittura di morti (martiri) per la causa della terra.

Perché se sai che ai tuoi bisnonni indigeni tzotzil venne rubata la terra che coltivavano da generazioni da parte di pochi proprietari terrieri, e per questo ti sei trovato a passare buona parte della tua vita a lavorare la terra dei bisnipoti degli stessi ladroni sfruttato per qualche soldo, allora l'avere un pezzo di terra proprio non diventa solo una necessità di sopravvivenza dignitosa, ma è una rivendicazione storica di giustizia.



La comunità si chiama Lopez Hernandez in memoria dei due cognomi dei “compagni” morti nel 2009 in un attentato del governo. È una comunità che ha dovuto aspettare 10 anni, due morti e un invalido prima che il governo gli riconoscesse il diritto di vivere sulle terre che avevano occupato. I 215 ettari prima coltivati a canna da zucchero per l'esportazione che erano in mano di una sola famiglia, ora sono campi di mais ,fagioli e zucchine, prati per pascolo e apicoltura, riserva per la biodiversità e villaggio comunitario per 94 famiglie.
Ma l'aver conquistato questa terra non significa vivere in pace:  nel 2009, dopo avergli concesso simbolicamente la proprietà delle terre, il governo tornò sui suoi passi in borghese per arrestare i leader dell'organizzazione senza alcun motivo valido, provocando allo stesso tempo l'incidente in cui morirono 2 persone e una rimase invalida.  Tutt'oggi la comunità si trova a vivere sotto stato d'allerta per la paura di altre repressioni, vista la vicinanza di appostamenti dell'esercito e persone sconosciute che vogliono infiltrarsi.
Non c'è pace per il contadino che recupera le sue terre se lo stato è il suo peggiore nemico. Poiché lo stato possiede mezzi di comunicazione, propaganda elettorale, esercito, polizia e amicizie con potenti proprietari terrieri, mentre il contadino non ha altro che la sua voce e la possibilità di fare scioperi della fame, manifestazioni e occupazioni delle terre, però sempre con le mani libere da armi.
Dicono che sono dimenticati dal loro stesso stato che và avanti senza preoccuparsi per loro perché cittadini di serie Z, come il comandante di una barca che appesantita dalla troppa carica lascia cadere i mozzi del proprio equipaggio a mare, lasciando però a bordo le casse di alcoolici per festeggiare l'arrivo a terra.
Dimenticati perché scomodi, credo io.
Colpevoli di lottare per i propri diritti e per la propria dignità, vengono lasciati senza scuole, senza case degne di questo nome, senza acqua potabile nè servizi di qualunque tipo.

La loro forza sta nel non passare la giornata lamentandosi, ma rimboccandosi le mani per cambiare la realtà in cui vivono, per il bene delle loro famiglie, per quello dell'organizzazione e delle altre comunità che ne fanno parte.
Per questo esistono le assemblee: quella della cooperativa, quella della organizzazione, quella della comunità...spazi di dialogo dove ognuno ha voce in capitolo e può opinare ciò che pensa sia meglio per la vita della comunità, sempre che abbia voglia di partecipare a lunghe discussioni che possono protrarsi per tutto il giorno. Si discute a livello orizzontale, perché ogni “compagno” e “compagna” ha il diritto di dire la sua. In questo modo vengono decise le cariche di responsabilità e allo stesso modo è stato deciso il regolamento interno della comunità (che vieta la vendita di alcolici al suo interno, che proibisce l'intromettersi nelle coppie e che riserva alcuni spazi a zone di protezione della biodiversità).

Don Chema, o il “vecchietto” come lo chiamano loro, è il leader morale dell'organizzazione che da 30 anni lotta per la causa del recupero delle terre anche se sfrattato, minacciato di morte, arrestato 4 volte e liberato come prigioniero politico grazie a pressioni internazionali.
Discutendo con lui sotto l'ombra di un albero in un pomeriggio soleggiato mi dice che nonostante a livello organizzativo siano molto efficienti, c'è ancora molta strada da fare sul piano della coscientizzazione: sradicare il maschilismo, l'abitudine a sporcare di immondizia il proprio spazio vitale, la tendenza a coltivare mais transgenico perché rende di più anche se è dannoso per la salute, la mentalità individualista e materialista di fronte a quella più cooperativista e solida..c'è ancora molto da fare prima di poter dire di essere arrivati alla società giusta e libera che tutti vorremmo.
Lui è una di quelle persone che si può essere orgogliosi di conoscere per il carisma e l'umiltà che trasuda: discorsi politici dello spessore di Marx anche se privo di alcun tipo di istruzione, conoscenza delle piante e del suo ambiente come un grande sciamano, vestito di stracci come un barbone e con uno scorcio lungo il viso che ricorda il pescatore di De André.
Lui, insieme a Francisco, Carmelo, Fernando, Josè i miei grandi maestri di qui. Persone esperte di vita e sofferenze, che non hanno intenzione di abbandonare la causa, perché finché esistono persone che non hanno accesso alla terra, ci sarà bisogno di lottare e resistere per far si che le cose cambino.
“Non bisogna avere paura delle repressioni! – dice Josè, che a 30 anni si trova in sedie a rotelle per colpa dell'attentato del governo – e quando queste arrivano, bisogna continuare a lottare! Perché finché siamo vivi, c'è una speranza di cambiamento!”.


Io sto passando con loro questi mesi, cercando di capire qual'è il ruolo della cooperante, cercando di mettere in piedi piccoli progetti che possano portare alla conoscenza reciproca e, soprattutto, imparando a lavorare in gruppo, a contatto con la diversità, in condizioni che nel nostro ricco occidente sarebbero "poco favorevoli" e che qui sono la norma.
Continuo a passare queste giornate cercando di imparare dalla loro forza e saggezza, condividendo esperienze e pensieri, lavorando con loro per dargli quello che ho da offrirgli, giocando con le mie piccole amiche e respirando quest'aria che anche se povera ed umile, ha un profumo bellissimo che sa di dignità.

Giulia

martedì 26 febbraio 2013

Bayush Petranzan - Report. Andhra Pradesh e Tamil Nadu - India


Capisci quando è il tempo di andare via, quando cominci a rimetterti i calzini ai piedi e smetti di sentire il contatto con la terra, con il fango. Capisci che è giunto il momento di andare quando i bambi e i ragazzi con i quali hai condiviso tante emozioni cominciano a dirti di restare ancora un po’. …
Ed è proprio in quel momento che la tristezza viene a galla, mista a tante altre bellissime emozioni… ed è in quel momento che basta incrociare solo UNO sguardo e la lacrimuccia non può fare a  meno di scendere, non puoi fermarla, lei scende.. e scende.. ma sul tuo volto compare anche quel sorriso. Un sorriso di gratitudine, un sorriso di complicità, un sorriso dell’arrivederci. In quel momento mille emozioni si accavallano… e ti ricordi di quel lontano 1 ottobre quando hai lasciato casa, amici, quando perdendoti all’aeroporto di Dubai continuavi a chiederti come sarebbe stata l’India, come sarebbero state le persone, come ti avrebbero accolto e se ti avrebbero accettato. Quando ti chiedevi se saresti mai stata adatta a fare un viaggio del genere, ed è li che tutte le emozioni cominciano ad accumularsi. Paura, curiosità, felicità, attesa…e ti accorgi come piano piano, giorno per giorno le tue paure siano svanite poco alla volta.
Prima di partire, ciò che mi veniva in mente legato alla parola “India” era, oltre Madre Teresa di Calcutta e Gandhi che sono ormai nella mente di tutti, la raffigurazione di un quadro, su questo quadro tanti poveri, tanta gente che moriva di fame per strada, tanti bambini, un luogo povero con le mucche ossutissime.  Ma un mio buon amico indiano mi aveva detto “Si è vero, c’è ancora questo in alcune zone ma vai a vedere con i tuoi occhi, l’India ti saprà stupire”
E così partì! Uscii dall’aeroporto, c’era una massa di gente che urlava “taxi madam, taxi”, altri che urlavano “oto madam, oto!”, altri invece in silenzio reggevano dei cartelli con suscritti dei nomi. 
La prima cosa che mi ha colpito quando sono arrivata in Tamil Nadu oltre il caos dell’aeroporto è stata la quantità di VERDE che avevo intorno. Una piacevole brezza entrava dai piccoli finestrini socchiusi del mio “taxi”, guardavo fuori dal finestrino. Silenzio. Uccellini. Alberi di cocco. Mille fiori e piante.  Ero in India?
Arrivata alla prima struttura, così come nelle altre, sono stata accolta con ghirlande di fiori al collo, puntino rosso in fronte, musiche e danze… Era tutto così nuovo, così emozionante, così piacevole.

Per il primo periodo del mio tirocinio sono stata in ASCOLTO. Ho cercato di capire la situazione in loco, mi sono fatta guidare dalla mia tutor che mi è stata vicina dandomi consigli e informandomi sulle tradizioni e usi del luogo. Dopo questo periodo di ascolto, HO FATTO UN PASSO AVANTI, insieme ai tutor abbiamo cominciato a stendere il programma delle attività da svolgere e abbiamo cercato di inserire all’interno delle attività anche il tempo per lavorare sulla mia ricerca. Le attività che ho svolto all’interno delle diverse strutture sono state ad esempio: aiuto compiti (soprattutto di inglese), organizzazione di attività ludico ricreative (per le strutture dove è stato possibile e dove c’è stata soprattutto la disponibilità da parte del personale), raccolta di informazioni per l’associazione italiana, aggiornamento e traduzione di dati riguardanti i bambini accolti.
Oltre a questo ho avuto la possibilità di intervistare i genitori dei bambini che vivevano nelle baraccopoli e conoscere meglio anche questa realtà.
Ma, nonostante tutto ciò che di bello stavo vivendo, non sono mancate le difficoltà. Difficoltà dettate dalla mancanza di comunicazione con la persone della struttura, legate alla personale comprensione della cultura, forse a volte troppo lontana dalla nostra e magari troppo contraddittoria. Ma la perfezione non esiste e queste difficoltà sono state per me spunti di riflessione.

Alla fine del mio viaggio, mentre ero sulla strada del ritorno in patria ripensavo alla frase del mio caro amico indiano. “l’India ti saprà stupire”.  E ripensavo ai piedi, si, ai piedi scalzi delle nonne, dei nonni, delle mamme e dei bambini. Ripensavo ai quei piedi piatti, rugosi, rovinati dal tempo passato a camminare su quella terra rossastra. E guardavo i miei, che nonostante mi togliessi le ciabatte ogni volta erano comunque sempre troppo ‘nuovi’. Ripensavo poi ai suoni, alle cavigliere con piccoli campanellini, alle musiche e alla puja (preghiera induista) che ogni mattina iniziava alle 5 del mattino, ripensavo all’ultimo periodo quando alle 4 del mattino passava tra le vie un uomo che suonava con forza i tamburi (che abbiamo scoperto poi essere una sorta di sveglia per la gente che a causa del freddo rischiava d rimanere a letto), ripensavo ai claxon, al rumore delle onde, al fruscio degli alberi al passaggio dei piccoli scoiattolini che saltavano di albero in albero. Ripensavo ai colori, ai fiori, ai rangoli, alle polveri, ai mille sari di colori e fantasie diverse che avvolgevano le belle signore. E come non pensare al cibo e soprattutto ai 5 kg presi a forza di mangiare riso a colazione, pranzo e cena? (mannaggia a chi mi ha detto che sarei tornata uno stecchino. Altro che! Se magna ben!) Ripensavo poi a quanta gente abbiamo fatto felice solo facendo una foto con loro, solo stringendogli la mano, solo scambiando uno sguardo, solo condividendo un posto a sedere in autobus. E ripensavo a quanto quest’esperienza mi aveva dato, a quante cose avevo imparato sull’india e pensavo a quante immagini distorte mi ero fatta prima. Avrò forse dato anche io qualche cosa? Avrò forse lasciato anche io il mio segno nei loro cuori come loro avevano fatto con me?... E poi guardavo i braccialetti dell’amicizia che mi avevano fatto, guardavo i disegni per me ‘come back again, goodbye’ e i le mie domande trovavano una risposta.

Alla fine di questo mio piccolo viaggio non ho la pretesa di aver capito l’India o le sue logiche senza logica. Alla fine di questo viaggio ho imparato la mia lezione, e come dicono loro “if u want, u can! Remember: successe is a process, not an event. Invest the time in building a positive attitude”. Akka, sister tambi, tangaci, annan, tamuddu grazie perchè la mia valigie è carica del sapere che mi avete donato.

Un forte abbraccio e un grande bacione.
Bayush sister

Tania Vincenzi - Report. Hyderabad e Pondicherry - India


Hi anna e akka!
Fratello e sorella sono le parole che accompagnano il tuo nome ogni volta che i bambini indiani rientrano da scuola e con il loro sorriso infinito ti fanno sentire parte della loro vita. Così voglio salutarvi dopo tanto tempo che non incrociamo i nostri sguardi!
Sono partita per l’India il primo novembre con delle idee in testa, cercando di immaginare cosa mi avrebbe accolto. Leggi tanto sui libri a proposito della cultura indiana, delle tradizioni, della religione ma mai nulla sarà all’altezza di quello che i tuoi occhi vedranno.
Il mio tirocinio è nato dalla voglia di capire com’è la vita, ma soprattutto il futuro di un bambino/ragazzo che vive e cresce in una casa famiglia. Come il territorio includa o escluda la sua presenza nella società per il semplice fatto di essersi formato come adulto in un contesto differente da quello che noi intendiamo di famiglia, con una madre e/o un padre.
Dopo un periodo di formazione con le associazioni che mi hanno ospitato, ho pensato di strutturare la mia permanenza in due periodi differenti: un mese ad Hyderabad (Andrha Pradesh) in una casa famiglia che ospita bambini dai 5 ai 23 anni a i restanti due a Pondicherry (Tamil nadu) in una casa famiglia per bambine.
Hyderabad mi ha accolta con i suoi edifici altissimi, smog e caos. La città ha origini islamiche e spesso ad oggi la convivenza religiosa risulta difficile, a partire dai frequenti scontri che avvengono nella parte vecchia della città, tra hindu e mussulmani.

E’ una tra le metropoli indiane maggiormente sviluppate grazie alla tecnologia che si estende in zone, quartiere paralleli. Altri mondi. A distanza di pochi chilometri dalle strade polverose che percorri tutti i giorni, cercando di schivare mucche, cumuli di rifiuti e senza farti travolgere da risciò o autobus, emergono grattacieli infiniti che sfiorano le nuvole in zone lussuose e luccicanti. Un’altra India, quella a cui tutti i giovani aspirano, “l’High-tech city”.
Spero di essere stata chiara nel farvi capire che la parola che spesso riassume una vita indiana è la contraddizione. Una contraddizione che si rispecchia anche negli atteggiamenti quotidiani e nel modo in cui, per esempio, viene guardata una donna. Posso dirvi con certezza dopo averlo provato che non è semplice essere una straniera non sposata, qua le donne sono accompagnate sempre da qualche uomo della famiglia e per certi aspetti la loro vita dipende da loro, non hanno un’individualità. Sono nate donne e per questo il loro ruolo è ben definito sin da quando sono bambine, devono solo sperare di essere fortunate nel momento in cui la famiglia sceglierà il loro futuro marito e di conseguenza la nuova famiglia che le accoglierà. I matrimoni combinati non sono una leggenda di altri tempi così come la dote, i rituali che lo accompagnano e le giornate infinite di festeggiamenti!
Dopo aver imparato a leggere certi atteggiamenti impari a rendere tutto relativo, perché l’India sta veramente crescendo, emergendo e le nuove generazioni, quelle che hanno la possibilità di proseguire gli studi e vivono la “Hyderabad bene” sono lanciate verso nuovi modelli e le famiglie a loro volta stanno facendo un cambio di rotta, allontanandosi da certi legami con il passato.
Questo è stato il contesto culturale che mi ha accolto e a tratti non di facile comprensione. A rendere tutto molto più semplice ci hanno pensato i ragazzi della casa famiglia. La situazione all’interno di quelle mura era totalmente diversa, un abbraccio caldo e famigliare quando ti sentivi perso nel caos dello sviluppo. Occhi caldi e profondamente neri, curiosi e con tanta voglia di conoscerti. Bhavitha Home (il nome che è stato dato alla casa) è un piccolo angolo di paradiso tra i tanti ostelli che esistono in questa città. I ragazzi hanno la loro indipendenza, libertà di espressione non a caso è una vera casa di talenti tra danza, canto, pittura e cricket (sport nazionale, dalle regole impossibili!).
Ogni mattina mi alzavo per fare colazione con loro e salutarli prima che andassero a scuola, poi la giornata la passavo con la presidentessa italiana dell’associazione che mi ha accompagnato per un periodo. Le mie attività di supporto erano già iniziate in Italia grazie ad un buon lavoro incentrato su quale sarebbe stata la mia figura per l’organizzazione. Con il senno di poi si è rivelato indispensabile per sentirsi partecipe fino in fondo nella missione che si è data l’associazione quando ha deciso di nascere e per poter contribuire con proprie idee. Alle varie attività di fund-raising e ricerca contatti per la creazione di una rete più ampia, ho intervallato la mia ricerca. Ho deciso di raccogliere i racconti di vita dei ragazzi per avere anche la loro percezione e parere sulla relazione che si instaura con il territorio. Un’ esperienza travolgente. Li ascolti guardandogli negli occhi e ti rendi conto che hai tante cose da imparare dalla vita ma ancora di più da loro, puoi solo restare in silenzio ad ascoltare e osservare il loro viso mentre ti rendono partecipe di un passato a volte troppo difficile per un bambino.
Il primo mese ad Hyderabad è volato in un batter d’occhio alla presa con emozioni contrastanti, con alti e bassi che spesso non riesci a spiegare.

A Pondicherry, verdissima città del Tamil Nadu, è iniziata la mia seconda parte di tirocinio formativo.
Ex colonia francese è ora meta di “freakketoni” da tutto il mondo alla ricerca di non si sa ben cosa. Arrivare qua è stato come cambiare continente, passeggiare per la via principale che si affaccia sul Golfo del Bengala accompagnati dal solo suono delle onde che s’infrangono dava l’impressione di non essere in India.

Da qua è nata la conferma che esistono tante “indie” una profondamente diversa dall’altra.
Ben presto ho lasciato la “comoda vita” della città per trasferirmi nel villaggio, a Thavalakuppam a 15 km da Pondicherry.
Qua, a differenza di Hyderabad, sono circondata da un verde incontrastato, la natura esplode e vince sull’uomo. Alberi di cocco, distese di risaie e scoiattoli che saltano da un albero all’altro, piccoli templi coloratissimi che emergono dal nulla. Un senso di serenità per la vista e l’udito.
In questo villaggio si trova la seconda struttura che mi sta ospitando; “Kirubalaya”. Si tratta di una casa famiglia gestita da una suora che si prende cura di bambine orfane e/o di strada dai 5 ai 18 anni.
Il contesto culturale che mi ha accolto è stato molto diverso anche per la forte presenza di turisti che a mio parere ha tolto a questa città un qualcosa. Qui lo spazio che mi circonda è decisamente a misura d’uomo; non ti perdi tra il caos e lo smog.
Nonostante la splendida cornice, le cose sono state più complesse a causa di una poca chiara comunicazione tra l’associazione italiana e quella indiana. Il mio ruolo in loco è stato completamente diverso da quello pre-annunciato e anche la parte della ricerca non è stata semplice. Ho dovuto re-inventare le mie giornate, le mie interviste. Non è stato semplice ma insieme alla mia compagna d’esperienza Bayush ci abbiamo provato!
Qua ho avuto modo di conoscere sistemi educativi che vengono dati ai bambini e che per essere raccontati avrebbero bisogno di una riflessione a parte. Assistere a certe situazioni è stata dura.
I bambini appena vedono alzare una mano verso l’alto pensano che stai per picchiarli mentre tu in realtà vuoi giocare o scompigliarli i capelli. Vedi il loro volto come al rallentatore che si corruga e si spaventa e senti un tuffo al cuore, un boato dentro.
Ripenso ai quei momenti ed ho i brividi; penso a quello che diceva Freire e alla facilità con cui da oppressi potranno e in alcuni casi già lo sono, diventare oppressori.

In questa esperienza ho visto la differenza che esiste nelle relazioni che puoi avere con i bambini e quella con le bambine. In questo secondo caso è molto più fisica, ti cercano la mano, ti accarezzano e tu puoi sentirti libera di fare altrettanto. C’è più attenzione nel prendersi cura di una bambina, e questo è dettata principalmente dal sistema culturale.
Sono estremamente controllate, soprattutto nelle loro amicizie. E’ una questione di reputazione necessaria per avere un buon matrimonio.

Tra pochi giorni lascerò Pondicherry per tornare ad Hyderabad.
Faccio il bilancio di queste due diverse esperienze e mi rendo conto che, come mi ha insegnato un indiano, la vita è fatta di 50 e 50: lascio una natura meravigliosa per tornare nel caos della città ma abbracciare (con lo sguardo) i miei fratelli indiani!
Questa esperienza quasi conclusa mi ha fatto conoscere una cultura, un mondo “altro”, infinito, che sento di voler conoscere sempre di più. A tratti mi sono trovata in una grande Italia del secondo dopo guerra, con un boom economico in atto e la voglia di cambiamento negli occhi che spesso si trova in contrasto con le proprie radici.
Tante cose ci sarebbero da raccontare ma aspetto di vedervi di persona.

Un abbraccio da una delle tante indie …

Tania